sabato 26 luglio 2008

Di cosa ha bisogno McCain per vincere

di Mark Halperin (TIME)

Cose che non può controllare

- Un grosso errore di Obama durante il suo viaggio all’estero che cambi la direzione della copertura mediatica – specialmente in Israele
- Che Obama subisca un momento del tipo “Dukakis nel carro armato” o “Kerry che fa windsurf” che abbia un valore simbolico nel sottolineare dubbi sulle sue capacità di guidare il paese
- Che Obama scelga un vicepresidente che finisca in un grosso scandalo, e/o che dica cose stupide
- Che i prezzi del carburante comincino a scendere molto presto
- Che Osama Bin Laden venga catturato in un modo che giovi alla Casa Bianca o ai Repubblicani
- Che i media inizino a trattarlo con rispetto (di nuovo)
- Che i media inizino a trattarlo con affetto (di nuovo)

Cose che può controllare (o quasi)

- Qualche grande momento presidenziale prima della convention
- Pronunciare un memorabile e grandioso discorso di accettazione durante la convention (come George H. Bush nel 1988)
- Imparare a insistere sullo stesso messaggio per più di un giorno di fila
- Cominciare a mostrarsi sicuro e a proprio agio riguardo il suo programma e le sue qualifiche, smetterla di essere così indeciso sulla sua piattaforma, smetterla di apparire così seccato dalla Obamamania
- Smetterla di mostrarsi così personalmente infastidito verso Obama e la copertura mediatica di cui gode
- Non cedere alla tentazione di parlare di sicurezza nazionale quando dovrebbe parlare di politica interna
- Riconoscere e accettare (come ha detto Rudy Giuliani) che agli americani interessa di più il prezzo dei carburanti, i mutui e i costi della sanità piuttosto che la storia personale di McCain, le sue idee in politica estera o il numero dei suoi viaggi in Iraq
- Scegliere un vicepresidente che faccia notizia – ma non così tanto da far sembrare la sua situazione così disperata
- Scegliere un vicepresidente che sia in grado di essere un punto di riferimento e un sostituto
- Smettere di fare errori stupidi (come la sua reazione scomposta sul fatto che il viaggio di Obama sia arrivato in ritardo)
- Smettere di dire cose che lo fanno sembrare vecchio (a meno che non sia certo che si colga l’ironia)

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venerdì 25 luglio 2008

Il tour estero di Obama: Germania

Se l'Europa avesse diritto di voto alle presidenziali Usa, Obama avrebbe la vittoria in tasca. Oltre alla ben nota predilezione Europea per i Democratici (basti pensare al mito Kennedy, molto piiù sentito da questa parte dell'Oceano che non in patria), Obama è riuscito a toccare una delle corde più sensibili degli europei, ovvero la sensazione che il Presidente Usa sia in realtà il presidente di tutto il mondo libero. E proprio in questa veste Obama si è presentato alle oltre 200.000 persone accalcate sotto la colonna della vittoria a Berlino, per l'atteso discorso del Senatore dell'Illinois, che intende sanare i dissidi nati tra Europa e Usa sotto l'amministrazione Bush.
Obama avrebbe voluto parlare davanti alla Porta di Brandeburgo, un luogo simbolo perchè ha ospitato due memorabili discorsi dei due presidenti Usa più rappresentativi del dopoguerra: quello di Kennedy nel 1963 all'indomani della costruzione del Muro di Berlino ("Ich bin ein berliner", io sono un cittadino di Berlino) e quello di Reagan nel 1987 in cui chiedeva all'Urss di riunire le due Germanie ("Se lei ha a cuore la libertà e il libero mercato, signor Gorbaciov, venga qui e tiri giù questo Muro, tear down this Wall"): Angela Merkel non ha potuto accontentarlo per motivi diplomatici, ma ha salvato capra e cavoli permettendogli di occupare la piazza più vicina.

Obama ha citato Berlino come esempio per la risoluzione dei problemi del mondo, ha sottolineato i rapporti tra USA e Germania nel dopoguerra e alla fine della Guerra Fredda. "Ringrazio la Merkel e il ministro degli Esteri Steinmeier per il benvenuto che mi hanno dato. Ma ringrazio soprattutto Berlino. Questa città come molte altre conosce il sogno della Libertà. Le persone del mondo devono guardare Berlino, dove il muro è caduto e dove la storia ha provato che non c'è una sfida che non si può combattere per il mondo unito"
"I muri tra i vecchi alleati dalle due parti dell'Atlantico non può durare. I muri tra razze ed etnie, nativi ed immigrati, Cristiani, Musulmani ed Ebrei. Sono questi i muri che adesso dobbiamo tirare giù. Cittadini di Berlino, cittadini del mondo, questo è il nostro momento".

In precedenza, Obama ha incontrato la cancelliera Angela Merkel, che si era detta "ansiosa" di conoscerlo e gli ha riservato una calda accoglienza.
In Usa, intanto, McCain si è presentato a sorpresa in un ristorante tedesco dell'Ohio dove ha tenuto un comizio in tedesco (Obama invece ha parlato in inglese).

giovedì 24 luglio 2008

Il tour estero di Obama: Israele

Barack Obama è giunto in Israele dopo la tappa intermedia in Giordania, e la mattinata di mercoledì è stata interamente dedicata ad incontri con esponenti del governo israeliano. Obama è giunto a Gerusalemme dove ha ricevuto una accoglienza estremamente (ed insolitamente) calorosa da parte del presidente Shimon Peres, che gli ha fatto i migliori auguri auspicando che sia "un grande Presidente, è la più grande promessa per noi e per il resto del mondo".
Il viaggio in Israele era particolarmente delicato soprattutto per le ripercussioni in politica intera: Obama, a causa soprattutto delle sue posizioni dialoganti sull'Iran, non gode infatti delle simpatie degli elettori ebrei, tradizionalmente Democratici, che potrebbero costargli stati chiave come la Florida. Per questo Obama, appena messo piede sul suolo israeliano, ha voluto chiarire che "sono qui per riaffermare le speciali relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, il mio impegno per la sicurezza di Israele e la mia speranza di essere un partner efficace come senatore o come Presidente".
Obama ha poi incontrato il ministro della Difesa Ehud Barak, il premier Ehud Olmert e il leader dell'opposizione Benjamin Netanyahu. Quest'ultimo ha rivelato ai giornalisti che al centro dell'incontro c'è stata la questione iraniana.
Infine Obama si è recato nello Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto, dove ha pregato in memoria delle vittime del nazismo, come aveva fatto anche John McCain a marzo. Qui Obama ha definito Israele "un miracolo" e ha affermato "Nonostante la tragedia che rappresenta, questo è un luogo di speranza".

Nel primo pomeriggio, Obama ha effettuato un breve trasferimento a Ramallah dove ha incontrato il presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen e il premier palestinese Salam Fayyad. Successivamente Obama è tornato a Gerusalemme dove ha incontrato il ministro degli esteri Tzipi Livni, a cui ha assicurato il suo impegno per Gerusalemme capitale. Nel viaggio di ritorno, ha fatto anche sosta in un villaggio israeliano colpito dai missili di Hamas, come già aveva fatto McCain.

Intanto in patria, McCain ha cercato di sottrarre un po' di attenzione mediatica a Obama diffondendo attraverso l'editorialista conservatore Robert Novak la notizia che ieri avrebbe annunciato il suo candidato alla vicepresidenza (il favorito di oggi era Bobby Jindal, con cui era in programma un incontro). Ma poi lo stesso Novak ha smentito accusando il campo di McCain di volerlo strumentalizzare.

mercoledì 23 luglio 2008

La scelta del vice: che fretta c'è?

di David Von Drehle (TIME)

All'improvviso, tutti vogliono parlare di vicepresidenza. Gli indovinelli di domani sono le questioni fondamentali di oggi - Governatori del MidWest, Senatori di stati in bilico, generali in pensione. La storia recente ci dice che il vincitore sarà annunciato giorni o settimane prima delle convention alla fine di agosto. Ma che fretta c'è?
Almeno uno dei due partiti deve rinnovare le tradizioni facendo esplodere una bomba mentre i delegati sono riuniti.

Barack Obama potrebbe usare l'annuncio per spazzare via le voci di dissenso da parte dei delegati sostenitori di Hillary Clinton. Il Wall Street Journal ci ricorda che non tutti i supporter della Clinton non sono tutti rassegnati. Molti dei 1.600 delegati vogliono poter votare per la loro candidata, per ricordare che la vittoria di Obama è stata di misura.
I giornalisti in cerca di scoop a Denver troveranno questa storia irresistibile. Le moderne convention sono organizzate così dettagliatamente che una qualsiasi zuffa diventa più importante di ogni incoronazione. Pochi lo sanno meglio dei Clinton, che nel 1992 dovettero affrontare nella convention i malumori dei delegati del Governatore della California Jerry Brown.
Obama potrebbe distogliere i riflettori dai delegati della Clinton facendo notizia. Potrebbe essere il primo Democratico dai tempi di Jimmy Carter, nel 1976, ad annunciare la sua scelta a convention già iniziata, e se la scelta verrà apprezzata potrà aprire un nuovo ciclo di concordia.

Un problema: "Non resterebbe molto tempo per integrare il candidato vicepresidente nella campagna elettorale" dice il veterano tra gli organizzatori delle convention Democratiche Michael Berman. "Tutto considerato entrerebbe nel vivo solo a metà settembre, e credo sia troppo tardi".
Inoltre nominare il vice nel bel mezzo della convention può essere rischioso, come ha imparato George H. Bush quando presentò il giovane Dan Quayle agli scettici partecipanti alla convention di New Orleans nel 1988. Non è caso se da allora i Repubblicani si sono adeguati al costume Democratico di annunciare la scelta in anticipo.
Ma questi criteri non valgono per Obama. Se la tendenza ad annunciare il vice in anticipo vale ancora, vale di più per John McCain.

Un po' di storia: Fino agli anni '80, i runnig mate venivano scelti principalmente per placare le fazioni del partito e cercare appeal geografico. J.F. Kennedy non voleva Lyndon Johnson alla Casa Bianca, ma aveva bisogno di lui per vincere. Gerald Ford fu costretto dai conservatori a far fuori il liberal Nelson Rockefeller dal ticket del 1976 in favore di Bob Dole.
Nel 1984, tuttavia, Walter Mondale capì di aver bisogno di un miracolo per battere Reagan. Mondale, che era stato nominato vice da Carter il terzo giorno della convention del 1976, scelse come partner Geraldine Ferraro una settimana prima della convention, dando vita a due settimane di copertura mediatica. Che comunque servirono a poco.
Da allora i candidati hanno preso l'abitudine di annunciare la scelta in modo da formarsi una immagine definita ed avere l'attenzione dei media. Così Bill Clinton annunciò a luglio 1992 di aver scelto Al Gore, e quattro anni dopo Bob Dole iniettò del testosterone nella sua campagna scegliendo l'ex quarterback Jack Kemp nello stesso periodo. Ad agosto 2000 Gore prese le distanze da Clinton scegliendo Joe Lieberman, critico del presidente in carica.
Nel 2004, il legame tra la scelta e la convention si è definitivamente rotto. John Kerry annunciò di aver scelto John Edwards tre settimane prima della convention.

Obama non ha bisogno di ulteriore copertura mediatica, nè di prendere le distanze dall'attuale Presidente, e neanche di raccogliere fondi. Anzi, sembra quasi che stia cercando minore copertura, in questi giorni, per non inflazionarsi.
McCain invece avrebbe bisogno dei benefici dati dalla scelta di un vicepresidente. Mentre Obama cerca di dipingere McCain come un Bush più vecchio, un giusto partner aiuterebbe il Repubblicano a rompere simbolicamente con il Presidente in carica. E potrebbe elettrizzare la campagna elettorale portando più soldi.

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martedì 22 luglio 2008

Il tour estero di Obama: Iraq

Si è svolta subito dopo l’Afghanistan la tappa più delicata (per motivi diplomatici) e riservata (per motivi di sicurezza) del tour estero di Barack Obama. Il Senatore Democatico è arrivato in Iraq lunedì mattina con primo scalo alla base militare di Bassora, dove assieme ai suoi compagni di viaggio, i senatori Jack Reid e Chuck Hagel, si è incontrato con gli ufficiali americani, inglesi e iracheni. Poco dopo ha lasciato Bassora per recarsi a Baghdad, dove ha passato il resto della giornata, e si è incontrato con il Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki, in partenza per l’Europa, e successivamente con il presidente iracheno Jalal Talabani. A entrambi Obama ha dovuto spiegare il suo piano di disimpegno dal paese.

Prima dell’incontro con al-Maliki, Obama ha dichiarato di aspettare dalle autorità irachene dei suggerimenti per migliorare il suo piano di ritiro delle truppe americane. Proprio al-Maliki, nei giorni precedenti, si era ritrovato al centro di polemiche politiche dopo aver rilasciato delle dichiarazioni che facevano pensare ad un suo endorsement per Obama, o quantomeno per il suo piano di ritiro. Il premier aveva infatti detto, in risposta ad una domanda di un giornalista, di apprezzare l’idea di un ritiro graduale della presenza statunitense in Iraq, da completarsi entro 16 mesi, come proposto da Obama. Successivamente un portavoce del governo ha specificato che il premier “sostiene in linea generale l’idea di un ritiro graduale delle truppe USA, e non ha inteso appoggiare Barack Obama. I suoi commenti in merito non sono stati riportati accuratamente e sono stati fraintesi".

I due incontri, come quello con Karzai in Afghanistan, sono coperti dal riserbo a proposito dei contenuti, ma sia da parte di Obama che delle autorità irachene la discussione è stata definita "costruttiva".
Come previsto, il viaggio ha avuto una copertura mediatica spropositata in patria, tanto da lasciare ben poco spazio ad altri argomenti. Obama, intervistato dalla CBS, ha dichiarato che le discussioni con i leader dei paesi in guerra hanno confermato la sua posizione "Non ho alcun dubbio sul mio piano".
Dopo un'ultima tappa in Medio Oriente in Israele e Cisgiordania (dove finalmente terrà una conferenza stampa, cosa che finora ha sempre evitato), Obama è atteso dall'Europa, e la strada sarà tutta in discesa vista la ben nota benevolenza europea verso i leader Democratici.

lunedì 21 luglio 2008

Il tour estero di Obama: Afghanistan

Sabato Barack Obama è atterrato in Afghanistan, dopo un breve stop in Kuwait, per la prima tappa del suo primo tour estero, che si inquadra nel tentativo del Democratico di accreditarsi in politica estera, campo in cui tutti i sondaggi lo danno nettamente indietro rispetto a John McCain.
Nel primo stop, Obama ha incontrato i soldati americani e i comandanti sul campo, ma non ha rilasciato dichiarazioni. Scegliendo l’Afghanistan come prima tappa del suo tour, Obama vuole ribadire che a suo avviso è quello il fronte centrale della lotta al terrorismo, e non l’Iraq.
McCain, allarmato dalla copertura mediatica che potrà avere questo viaggio, ha alzato il tiro accusando Obama di aver sempre sostenuto posizioni sbagliate in politica estera, e ha anche annunciato in anticipo il programma del viaggio del Democratico – che era stato tenuto segreto per motivi di sicurezza – sperando probabilmente di costringerlo ad un cambiamento dell’ultimo minuto, cosa che non è avvenuta.

Domenica 20, Obama si è incontrato con il presidente afghano Hamid Karzai – che in passato il Democratico aveva accusato di non essersi impegnato abbastanza per la ricostruzione. Il colloquio è stato breve e riservato.
In precedenza, e prima di lasciare il paese asiatico, il Senatore aveva pranzato assieme ai soldati del contingente americano, commentando “Questa è la cosa che preferisco fare”. Obama ha tenuto un breve discorso ai militari, incoraggiandoli ad andare avanti e ricordando loro quanto l’America ne sia orgogliosa. Il sergente Anthony Lewis del Texas, a cui è capitato di sedere accanto ad Obama durante il pranzo, ha riferito alla CNN di essere stato colpito positivamente dal Senatore sia per la sua conoscenza della situazione che per la sua familiarità “Ha cambiato il suo programma per poter rimanere più tempo con noi e visitare questo e altri accampamenti. Vuole sentire il nostro punto di vista e questo è grandioso”.
Prima di arrivare in Europa, Obama visiterà Israele e la Cisgiordania, e probabilmente l’Iraq, anche se per motivi di sicurezza questa tappa e il relativo programma sono ancora in forse.

Obama è accompagnato nel suo tour dal Repubblicano Chuck Hagel e dal Senatore Democratico Jack Reed, che vedono quindi in crescita (soprattutto il primo) le proprie quotazioni come candidati alla vicepresidenza.

domenica 20 luglio 2008

Le elezioni che hanno fatto storia: 1984

Nel corso dei quattro anni del suo primo mandato, Ronald Reagan aveva portato l'economia americana ad una rapida ripresa dopo la profonda recessione che si era conclusa toccando il suo massimo nel 1982. Reagan era anche sfuggito ad un attentato, nel 1981, e i suoi indici di gradimento erano altissimi.
Tuttavia la sua figura accentratrice e l'età avanzata concedevano ai Democratici qualche residua speranza di poter compattare un fronte anti-reaganiano in grado se non altro di metterlo in difficoltà e di riconquistare una maggioranza al Congresso. Inoltre l'interventismo di Reagan in politica estera, in un periodo in cui la Guerra Fredda sembrava ancora lontana dalla conclusione, suscitavano non poche paure sulla possibilità che si arrivasse ad uno scontro irreparabile tra gli Usa e "l'impero del Male" (definizione di Reagan) dell'Unione Sovietica.
In casa Repubblicana, Reagan ottenne senza problemi la nomination per il secondo mandato, conquistando il 98,78% dei voti alla convention. Per l'ultima volta nella storia, il voto per la nomination alla vicepresidenza si tenne separatamente da quella per il Presidente, e George H. Bush ottenne una comoda riconferma.


In casa Democratica, era finalmente arrivato a conclusione il processo di riforma del sistema di nomina, culminato con l'introduzione nelle primarie di un consistente numero di superdelegati scelti tra i leader del partito, un sistema che permetteva ai pezzi grossi del partito di avere un peso sulla decisione finale, che nelle ultime tre primarie era spettata unicamente agli elettori.
Ai nastri di partenza si presentarono molti candidati, ma i tre principali erano Walter Mondale, già vicepresidente di Carter, il giovane Senatore del Colorado Gary Hart, già direttore della campagna di McGovern nel 1972, e il Reverendo Jesse Jackson, attivista dei diritti civili degli afro-americani.
Walter Mondale era il grande favorito, avendo già in partenza il consenso quasi unanime dei leader del partito. Ma l'amministrazione Carter, anche a distanza di 4 anni, suscitava ancora brutti ricordi nei Democratici, e ben presto nelle primarie questi problemi emersero.
Jackson vinse le primarie in Virginia, South Carolina e Louisiana, anche se non riuscì mai a sfondare al di fuori dell'elettorato nero e si inimicò anzi gli ebrei.
Ma fu Gary Hart il grande rivale di Mondale. Replicando la strategia che aveva ideato per McGovern (scherzosamente si definisce l'inventore dei caucus in Iowa), Hart vinse tutti i primi contest, guadagnando il "momentum". Hart criticò duramente Mondale, accusandolo di rappresentare la "vecchia politica" e ricordando i fallimenti del recente passato.
Hart vinse in New Hampshire, Ohio, California e in tutto il west, conquistando un consenso da strordinario tra i giovani presentandosi come agente del cambiamento, moderato e innovatore.
I dibattiti tra i tre candidati furono tra i più accesi della storia Democratica, e Mondale riuscì a danneggiare seriamente l'immagine di Hart ridicolizzando il suo slogan "New Ideas" paragonandolo con uno spot di un'azienda di fast food in voga nel periodo. Inoltre Hart commise diversi errori dovuti all'inesperienza nel parlare di politica estera.
Dopo l'ultima primaria, quella in California, Mondale aveva un vantaggio di appena 40 delegati, e quindi tutto fu deciso alla convention.
Qui Mondale riscosse il consenso dei superdelegati, ottenendo senza problemi la nomination nonostante i sondaggi continuassero a dare Hart come il candidato con più possibilità di contrastare Reagan. Nel discorso conclusivo, Mondale disse "Diciamoci la verità, Regan aumenterà le tasse, e lo farò anch'io. La differenza è che lui lo farà di nascosto mentre io ve lo dirò". La frase si trasformò in un boomerang che annullò le già scarse speranze di vittoria.
Mondale decise sin dall'inizio che il suo vice avrebbe rappresentato una svolta storia: dopo aver esaminato l'afroamericano Tom Bradley e l'ispanico Henry Cisneros, Mondale si orientò su una donna. La scelta iniziale era il Sindaco di San Francisco Dianne Feinstein, ma problemi di conflitti di interessi del marito della Feinstein spinsero Mondale a scegliere Geraldine Ferraro, che fu eletta per acclamazione dalla convention.


Mondale condusse una campagna liberal all'insegna della proposta di un"congelamento" del nucleare, sostenendo l'Equal Rights Amendment e la necessità di aumentare le tasse per arrivare al pareggio del deficit.
Reagan dipinse il suo avversario come un burocrate che avrebbe aumentato tasse e spesa pubblica riportando in crisi l'economia americana, e mettendolo in relazione all'amministrazione Carter. Reagan usò come inno della sua campagna "Born in the USA" di Bruce Springsteen, senza il permesso dell'autore e cambiandone il senso (originariamente era una canzone contro la guerra in Vietnam), finchè Springsteen non lo obbligò a smettere.
Nell'unico dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, la Ferraro riuscì a mettere in difficoltà Bush, ma nel corso della campagna il marito della candidata finì nell'occhio del ciclone per motivi finanziari (e successivamente la donna fu condannata dalla commissione Etica della Camera per non aver diffuso interamente la sua dichiarazione dei redditi) e il gradimento della Ferraro calò drasticamente.
Il primo dibattito presidenziale vide Reagan in grossa difficoltà - sbagliò a riferirsi alla località in cui si svolgeva e ammise più volte di essere "confuso" - facendo sorgere perplessità riguardo la sua età avanzata. Nel secondo dibattito tuttavia il Presidente recuperò terreno e neutralizzò le perplessità con la battuta "Non userò il tema dell'età in questa campagna. Non dirò che il mio avversario è giovane e senza esperienza".

Le elezioni si tennero il 6 novembre, e Reagan ottenne un successo plebiscitario, bissando quello di Nixon del 1972. Il ticket Repubblicano conquistò 49 stati su 50 (Mondale, oltre a DC, vinse solo in Minnesota, il suo stato di origine, e solo per poche migliaia di voti).
Reagan conquistò 525 Grandi Elettori e il 58,8% dei voti contro i 13 Grandi Elettori e il 40,6% di voti del Democratico, il risultato peggiore dal 1936, e in assoluto il peggiore della storia dei Democratici.
Gli analisti scoprirono che moltissimi Democratici - soprattutto bianchi del Sud e operai del Nord - avevano votato Reagan ritenendolo più "Democratico" del loro candidato di riferimento, e percependolo come più vicino ai bisogni del ceto medio.