sabato 31 maggio 2008

Verso il voto: le primarie democratiche a Porto Rico

L'immagine “http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/28/Flag_of_Puerto_Rico.svg/125px-Flag_of_Puerto_Rico.svg.png” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.
Il Commonwealth di Porto Rico (o Puerto Rico o Portorico) è uno stato liberamente associato agli USA. E' la più piccola isola delle Grandi Antille, tra la Repubblica Dominicana e le Isole Vergini americane.
La storia di Porto Rico nell'era precolombiana è pressochè sconosciuta, eccezion fatta per delle scoperte archeologiche recenti che hanno permesso di identificare a grandi linee i popoli e le culture dominanti. Nel 1493 Cristoforo Colombo giunse a Porto Rico durante il suo secondo viaggio alle Antille, e trovò l'isola popolata da tribù indiane Arawak. Colombo battezzò l'isola San Juan Bautista, ma poi l'esploratore Martin Alonso Pinzòn, che si era separato dal navigatore genovese nel 1492, rivendicò la primogenitura della scoperta e ottenne dalla Corona spagnola la concessione per colonizzare l'isola, che venne ribattezzata Puerto Rico.
La popolazione indigena venne rapidamente rimpiazzata da schiavi africani portati dai colonizzatori spagnoli. Alla metà del 1800, Porto Rico era rimasta, con Cuba, l'ultima colonia spagnola nel nuovo mondo. Nel 1868 una prima insurrezione indipendentista venne sedata, ma nel 1897 il governo spagnolo accettò di proclamare l'autonomia dell'isola, che però avrebbe continuato ad avere un governatore nominato dalla Spagna. L'anno dopo scoppiò la guerra ispano-americana, e con il Trattato di Parigi nel 1898 Porto Rico venne ceduta agli USA assieme a Guam e alle Filippine. Nel 1917, ai portoricani venne riconosciuta la cittadinanza americana (per poterli arruolare nell'esercito).
Dopo la seconda guerra mondiale iniziarono lotte per l'indipendenza, culminate nel tentativo di assassinare il presidente Truman nel 1950. A seguito di questo evento, gli USA consentirono ai portoricani di indire un referendum con cui si stabilì l'attuale status di Commonwealth. Porto Rico è oggi guidata da un governatore democraticamente eletto e da un Assemblea legislativa bicamerale, e pur beneficiando di alcuni legislativi degli USA, i cittadini dell'isola non possono votare per le presidenziali americane. Negli ultimi anni le lotte per definire lo status politico non si sono arrestate, e l'isola è divisa in parti quasi uguali tra chi vorrebbe rafforzare il Commonwealth, chi vorrebbe l'indipendenza e chi al contrario vorrebbe diventare uno stato federale USA a tutti gli effetti.
All'inizio del XX secolo l'economia di Porto Rico si basava prevalentemente sull'agricoltura, ma a partire dalla Grande Depressione si è sviluppato un fiorente settore industriale soprattutto a livello farmaceutico e manifatturiero. L'isola è anche una rinomata meta turistica.
Porto Rico ha circa 3.920.000 abitanti (il numero di emigrati portoricani negli USA è superiore ai 4 milioni e mezzo), l'etnia dominante è quella dei bianchi, principalmente meticci discendenti dagli spagnoli. La seconda etnia è quella dei neri discendenti dagli schiavi africani. La religione prevalente è quella cattolica (73%).

Le primarie Democratiche del 1 giugno (quelle Repubblicane si sono tenute a febbraio con vittoria di McCain) mettono in palio 63 delegati, di cui 55 elettivi e 8 superdelegati con il sistema della primaria aperta. Dei 55 delegati elettivi, 36 vengono assegnati proporzionalmente sulla base dei risultati negli 8 distretti elettorali, mentre i restanti 19 vengono assegnati sulla base dei risultati totali, con uno sbarramento al 15%. Inizialmente era previsto un caucus per il 7 giugno, poi annullato. La convention si terrà il 21 giugno, e degli 8 superdelegati 4 appoggiano la Clinton e 2 Obama.
I sondaggi assegnano un vantaggio a doppia cifraa Hillary Clinton, che ha fatto nell'isola una campagna elettorale intensa anche grazie a Bill e Chelsea: secondo un poll locale di El Vocero e Univision la senatrice sarebbe al 59% contro il 40% di Obama, mentre un sondaggio di Research & Research del 5 aprile dava la Clinton al 50% e obama al 37%.
I seggi si aprono alle 8 ora locale (le 14 in Italia) e chiudono alle 3 del pomeriggio (le 21 da noi).

La Clinton cerca il sorpasso nel voto popolare

di Anne E. Komblut e Dan Balz (Washington Post)

Distaccata per numero di delegati e con i debiti che continuano crescere, Hillary Rodham Clinton sta facendo aggressivamente campagna elettorale negli ultimi tre stati in cui devono ancora svolgersi le primarie, nella speranza di superare Barack Obama nel voto popolare.
L'effetto di una simile vittoria - e il dubbio se la Clinton intenda proporsi con forza per il posto di vicepresidente o semplicemente voglia conseguire un risultato storico - è meno chiaro.
La ricerca di questo risultato a portato la Clinton in South Dakota e poi di corsa a Porto Rico il giorno dopo. Questo spiega anche la retorica a volte contraddittoria usata la scorsa settimana, in cui a un appello all'unità del partito seguiva il proposito di continuare a rimanere in corsa contro Obama.
"Comunque vada, continuerò a lavorare al massimo delle mie possibilità per far sì che un Democratico venga eletto presidente questo autunno. Il motto del Kentucky è 'Uniti ci battiamo, divisi cadiamo'" ha detto dopo la vittoria di martedì scorso. Il suo discorso è stato intepretato da alcuni come il segno che la Clinton è già proiettata al suo ruolo nel dopo-primarie.
Ma appena un giorno dopo, con rinnovato vigore, la Clinton ha paragonato i suoi sforzi per ottenere la riammissione di Michigan e Florida alla lotta per l'abolizione della schiavitù - una boutade che secondo molti addetti ai lavori riflette il difficile stadio emotivo della candidata.
L'impegno della senatrice di riammettere i delegati di Florida e Michigan è collegato al suo desiderio di conquistare il primato nel voto popolare. In quegli stati, penalizzati dal partito, la Clinton ha vinto con ampio margine, anche visto che Obama non compariva tra i candidati in Michigan.
Dopo le primarie in Oregon e Kentucky, Obama ha una leadership di 400.000 voti, secondo varie stime, ma contando il totale di voti di Michigan e Florida la Clinton passerebbe in testa. Lei spera di colmare il divario con una ampia vittoria a Porto Rico, domenica prossima.
Tuttavia i suoi assistenti stanno facendo fatica a spiegare gli scopi di questa battaglia. La settimana scorsa il portavoce della Clinton, Howard Wolfson, ha smentito seccamente le voci secondo cui la senatrice fosse in stretti contatti con David Plouffe per negoziare un ticket con Obama.
Il numero di consiglieri della Clinton si fa intanto sempre più stretto, e le persone con cui la canddiata discute di future strategie sono solo la manager della campagna elettorale Maggie Williams e l'avvocato Cheryl Mills. Ma di sostenitori nel partito ne ha ancora molti, che la sostengono ad andare avanti e che sperano che la nomination non arrivi prima della convention.

Il 31 maggio dovrebbe arrivare una prima decisione per Michigan e Florida, con la riunione della commissione Rules & Bylaws. Se le due parti non saranno soddisfatte delle decisioni, la questione andrà avanti almeno fino ad una nuova riunione, alla fine di giugno.
La Clinton ha detto ripetutamente che non si farà da parte finchè Obama non avrà raggiunto la metà più uno dei delegati, ma lei si riferisce al quorum di 2.210 delegati, ovvero con Michigan e Florida, e non a 2.026.
La Clinton chiederà alla Commissione di riammettere completamente i due stati, soluzione che le farebbe guadagnare 111 delegati. Il distacco da Obama è ora di circa 190 delegati, quindi anche il più favorevole degli esiti la lascerebbe alle spalle del rivale. Un'altra soluzione le darebbe un guadagno di 56 delegati. Tra i 30 membri della commissione, 30 sostengono la Clinton, ma non è detto che porteranno avanti ad oltranza le sue richieste a rischio di spaccare il partito.
Le frasi infelici della Clinton sull'assassinio di Robert Kennedy e sulla lotta per le delegazioni paragonata a quella contro la schiavitù non hanno certo contribuito a rasserenare il clima attorno a lei.
Se la commissione non troverà una soluzione, tutto passerà nelle mani del Credentials Committee che si riunirà il 29 giugno. In pochi pensano che la Clinton possa spingersi così in là, ma alcuni dei suoi consiglieri affermano che la senatrice è pronta a farlo se la commissione non emetterà una sentenza a lei favorevole.


© Copyright 1996-2008 The Washington Post Company

venerdì 30 maggio 2008

David Plouffe, il comandante dell'armata dei nerd di Obama

di Noam Scheiber (The New Republic)

A ottobre del 2007, noi della stampa pensavamo che se Barack Obama doveva fare qualcosa, avrebbe fatto meglio a sbrigarsi. Sfortunatamente per lui, lo pensavano anche molti dei suoi finanziatori, che si riunirono alla galleria d'arte Des Moins in preda all'ansia. Perchè Obama non recuperava in Iowa? Doveva cominciare ad attaccare la Clinton?
Toccò al manager della campagna di Obama, David Plouffe, calmare gli animi. Elencò gli uffici di Obama in Iowa e le date in cui erano stati aperti. Elencò i distretti in cui Obama avrebbe ottenuto i voti dei sostenitori dei candidati eliminati. Fece anche partecipare i finanziatori ad un caucus simulato in cui dovevano scegliere cibi invece di candidati.
Fu un modo spettacolare per dimostrare la sua conoscenza dell'Iowa. "Alla fine tutti dissero 'Ok, vinceremo in Iowa'" ricorda Kirk Wagar, uno dei finanziatori.
Dalla campagna elettorale di Harkin nel 1992, Plouffe è tornato infinite volte in Iowa diventando di fatto il capo di una specie di confraternita che conosce a menadito la demografia, la geografia, le regole procedurali. Se la strategia politica tende ad attrarre i nerd - pensate all'ossessione di Karl Rove per le elezioni del 1896 - l'Iowa attrae i più nerd di tutti.
E' vero che la campagna elettorale entra nel vivo dopo l'Iowa e il New Hampshire, e che la campagna di Obama si è basata su retorica e copertura mediatica, tuttavia grazie a Plouffe, la raccolta di dati e di mappe distrettuali è un punto centrale. Plouffe ha condotto l'intera campagna elettorale come se si trattasse di una versione estesa dei caucus in Iowa, e ha portato Obama a un passo dalla nomination.

Plouffe ha passato gran parte della sua vita a lavorare per Dick Gephardt, praticamente l'antitesi di Obama, ma questa esperienza lo ha formato e lo ha portato ad unirsi professionalmente con un guru della comunicazione di Chicago chiamavo David Axelrod. I due David, nel 2003, vengono assunti per seguire la candidatura al Senato di un ambizioso politico dell'Illinois.
Ad Axelrod viene generalmente attribuito il merito di aver creato l'immagine di Obama, e questo è vero per l'elezione al senato nel 2004. Ma la campagna che ha reso celebre Obama non sarebbe avvenuta senza la magia meccanica di Plouffe. Escogitò un piano che diede a Obama un terzo dei voti tra i 7 candidati delle primarie per il Senato, portandolo alla vittoria. Obama fu talmente conquistato da questa strategia che la frase "Che ne pensa Plouffe?" diventò un tormentone.
Plouffe odia la pubblicità, una caratteristica apprezzata da Obama. Quando Plouffe venne a sapere che sarebbe stato inserito dalla rivista Detail tra le 50 persone più influenti sotto i 45 anni, chiese e ottenne di non apparire.

Laddove un nerd della strategia avrebbe puntato tutto su Iowa e New Hampshire, Plouffe elaborò una meticolosa strategia per affrontare una lunga gara. Quando venne stabilito il calendario delle primarie, fu chiaro che il 5 febbraio non sarebbe stato un normale Super Tuesday, sarebbe stato di fatto una primaria nazionale. Una strategia tradizionale sarebbe consistita nell'organizzare un supporto adeguato in tutti gli stati interessati, e nello stringere contatti con nomi influenti, che la Clinton aveva in quantità industriali.
Non così per Plouffe. Assunse un ex stratega di Gephardt, Jeff Berman, e con lui capì che il 5 febbraio si sarebbe potuto concludere con un pareggio che avrebbe allungato la gara in due settimane estremamente favorevoli a Obama. La strategia scelta fu quindi quella di costruire una base robusta negli stati chiave e lavorare incessantemente negli stati con i caucus.

Una delle invenzioni più sottovalutate di Plouffe è un foglio di calcolo. Quando, dopo il New Hampshire, ha visto che razza di battaglia sarebbe arrivata, ha capito che bisognava convincere gli osservatori che sarebbe stato il computo dei delegati elettivi a decidere la nomination. "La sua idea era che dovevamo insistere su quel punto, ma non potevano fidarci dei conteggi dei media, perchè ognuno ha i suoi standard" spiega un suo assistente. Perciò Plouffe e Berman hanno creato una sofisticata applicazione Excel che, inserendo i voti, genera l'assegnazione dei delegati stato per stato. Questa applicazione è diventata celebre il 5 febbraio quando, prima dei media, ha mostrato che Obama aveva la leadership tra i delegati elettivi e ha permesso di prevedere che la corsa sarebbe andata avanti fino a giugno.

Nelle successive due settimane, Obama ha infilato 11 vittorie consecutive che gli hanno garantito una salda leadership tra i delegati pledged. (Plouffe aveva oculatamente conservato dei soldi, mentre la Clinton aveva speso tutto per il Super Tuesday). A quel punto, gran parte della stampa ha accettato i delegati elettivi come metro di valutazione delle primarie.

L'understatement di Plouffe fa sì che i colleghi alzino le antenne ogni volta che si esprime. L'unica volta in cui ha mostrato di tradire qualche emozione è stata dopo la bruciante sconfitta in New Hampshire. Plouffe spiegò metodicamente il piano per gli stati successivi e poi, con un tono di voce di un decibel più alto del suo normale sussurro, ha proclamato "E adesso andiamo a vincere questa fottuta battaglia". Sarebbe stato insignificante se fosse provenuto da chiunque altro, ma per Plouffe era una citazione dal monologo di Mel Gibson in Braveheart. In guardia, soldati nerd.


© The New Republic 2008

L'ex portavoce della Casa Bianca mette nei guai Bush

In questi giorni, in testa alle classifiche dei libri più venduti in America si trova un libro intitolato "What Happened: Inside the Bush White House and Washington's Culture of Deception" (Cosa è successo: dentro la Casa Bianca di Bush e la cultura dell'inganno di Washington) di Scott McClellan. La cosa curiosa è che il volume non è ancora fisicamente uscito in libreria, eppure è già in testa alle vendite grazie alle prenotazioni su Amazon.com.
Il libro, che sta mettendo in subbuglio gli ambienti dell'amministrazione Bush, non è il solito pamphlet, per quanto ben documentato, che punta il dito contro i fallimenti dell'attuale Presidente: Scott McClennan è stato infatti il portavoce della Casa Bianca dal 2003 al 2006, e prima di allora era al fianco di George W. Bush dal 1996 come direttore della comunicazione.

Quello del portavoce della Casa Bianca è un ruolo di grande rilievo istituzionale (praticamente al livello del gabinetto esecutivo), che durante l'attuale amministrazione ha vissuto momenti turbolenti, con ben quattro portavoce in sette anni. I primi due, Ari Fleischer e lo stesso McClennan, hanno dovuto lasciare a seguito del cosddetto Plame Affair - O CIA-gate - che ha coinvolto il vicepresidente Dick Cheney, accusato di aver "bruciato" la copertura dell'agente segreto Valerie Plame per punire il marito Joseph Wilson, un diplomatico che aveva smascherato le bugie della Casa Bianca sulla guerra in Iraq. In particolare McClennan fu costretto a rassegnare le dimissioni nel 2006 perchè tre anni prima, al terzo mese come portavoce, aveva affermato di fronte alla stampa che il gabinetto presidenziale non aveva nulla a che vedere con lo scandalo. Il suo sacrificio non bastò, e infatti pochi mesi dopo la rielezione di Bush anche Karl Rove abbandonò l'incarico Il terzo portavoce, Tony Snow, ha invece lasciato per motivi di salute e il posto è ora occupato dalla sua vice Dana Perino.

Nel suo libro di memorie McClellan accusa senza mezzi termini Bush di essere un bugiardo. "Il Presidente ha mandato l'America terribilmente fuori rotta, non è stato sincero e aperto sull'Iraq e ha governato il paese come fosse in campagna elettorale permanente" si legge in uno dei brani del libro resi disponibili alla stampa. McClennan dice di nutrire ancora dell'affetto per Bush, ma questo non gli vieta di attaccarlo per essersi affidato a pessimi consiglieri. E' soprattutto contro di loro - in primis Karl Rove - che il libro si scaglia. Nel libro si dice che l'intera guerra in Iraq è stata accompagnata da una sofisticata propaganda, per nasconderne le vere motivazioni. Secondo McClellan, Bush era impreparato ad analizzare le informazioni sull'Iraq fornite dall'intelligence, e si è fidato ciecamente di quello che i suoi collaboratori gli riferivano.
Nel libro McClellan parla anche dello scandalo Plame, riferendo che mentre a lui veniva chiesto di negare ogni addebito, il vicepresidente Cheney, Karl Rove e il suo capo dello staff Scooter Libby si adoperavano in segreto per far sparire le prove delle loro malefatte. "Sono il rantolo di un blogger estremista" ha affermato Karl Rove a proposito delle accuse, mentre la portavoce della Casa Bianca Dana Perino si è detta stupefatta del "tradimento".
Condoleeza Rice ha invece dichiarato "Il presidente fu molto chiaro sulle ragioni della guerra. Non ho intenzione di commentare un libro che non ho letto, ma quello che posso dire è che la preoccupazione per le armi di distruzione di massa nell'Iraq di Saddam Hussein è stata la ragione fondamentale della guerra".

giovedì 29 maggio 2008

McCain invita Obama a visitare l'Iraq insieme

Il "joint trip" è una chimera che torna periodicamente nelle campagne presidenziali. L'idea che i due candidati viaggino insieme per rendersi conto dei problemi dell'America venne lanciata per la prima volta da John Kennedy e Barry Goldwater, ma l'assassinio di JFK ne impedì la realizzazione. Oggi a riproporre l'idea è John McCain, anche se con intenti più polemici e di sfida, rispetto a quelli dei suoi illustri predecessori.
Approfittando del Memorial Day, il giorno in cui gli Usa commemorano i soldati morti in guerra, il candidato Repubblicano ha criticato le proposte di Obama in merito alla guerra in Iraq, e ha sottolineato che il Democratico non visita l'Iraq dal 2006 "Sono successe molte cose in questi due anni, da quando il Senatore Obama è stato in Iraq e ha dichiarato persa la guerra. Non ha esperienza nè conoscenza sulla questione irachena, come dimostra il fatto che da tempo avrebbe voluto che ci arrendessimo" ha detto il senatore dell?Arizona. Più tardi è stata la Senatrice Lindsey Graham, sostenitrice e collaboratrice di McCain, a preparare il terreno per la proposta di McCain: un viaggio congiunto in Iraq, per incontrare il Generale Petraeus, comandante delle truppe USA in Iraq, e il primo ministro Nouri Al-Maliki. "Torno in Iraq di frequente, e approfitterei dell'opportunità per spiegare un po' di cose a Obama" ha detto McCain.

Obama ha risposto tramite il portavoce Bill Burton, dicendo di voler andare in Iraq ma di non essere interessato ad una "passeggiata in Iraq" con McCain "Quella di McCain è solo una trovata politica, e non abbiamo bisogno di altri proclami di "Missione compiuta" o di passeggiare tra i mercati di Baghdad per capire che i leader iracheni non hanno fatto quei progressi che erano lo scopo dell'incremento di truppe. Gli americani non vogliono altre false promesse, ma meritano un vero dibattito su una guerra che ci è costata migliaia di vite e miliardi di dollari senza renderci più sicuri".

McCain ha replicato ironizzando sul fatto che Obama vorrebbe incontrare i leader degli "stati canaglia" ma non vuole parlare con il Generale Petraeus. Il portavoce di Obama ha a sua volta risposto sottolineando come McCain abbia più volte criticato l'amministrazione Bush per la guerra in Iraq "Sembra strano sentire queste parole da parte di chi sin dall'inizio ha sfidato il piano di Bush sull'Iraq, sostenendo che ci avrebbe indebolito in Afghanistan e avrebbe rafforzato Al Qaeda.

Infine ieri, dopo che il Partito Repubblicano ha inserito sul suo sito un contatore che tiene il conto del tempo passato dall'ultima visita di Obama in Iraq (oggi sono 872 giorni), il candidato Democratico ha ribadito di essere intenzionato a partire presto, ma che comunque questo non accadrà prima di aver conquistato ufficialmente la nomination. A quel punto "L'Iraq sarebbe al primo posto nella lista dei posti che andrò a visitare" ma senza McCain "Non voglio essere coinvolto i manovre pubblicitarie".

I Democratici temono le divisioni razziali

Le recenti vittorie di Hillary Rodham Clinton hanno acuito il dilemma all'interno del Partito Democratico, che vorrebbe chiudere la partita al più presto per concentrarsi sulle presidenziali ma è ben conscio che i risultati delle primarie mostrano un elettorato spaccato.
Finora in molti, pur auspicando una rapida conclusione, si dicevano fiduciosi nella possibilità di ricucire ogni strappo dopo l'ufficializzazione della nomination, conducendo una campagna basata sull'unità di intenti.
Ora però la divisione è diventata razziale, e per la prima volta i leader neri del partito si sono fatti sentire in maniera decisa. Ad aprire il fuoco è stato James E. Clyburn (nella foto), il più importante afroamericano del Congresso, superdelegato ancora non dichiarato. Clyburn ha duramente criticato Bill Clinton, accusandolo di condurre una campagna elettorale "bizzarra". Nel mirino di Clyburn alcune dichiarazioni poco felici dell'ex presidente, a partire da quella pronunciata in South Carolina (stato di elezione di Clyburn) quando la campagna di Obama era stata paragonata a quella di Jesse Jackson, nel tentativo di sminuirla e ridurla ad un fenomeno locale. A Philadelphia Clinton è tornato sull'argomento, e in un'intervista radiofonica ha difeso le sue dichiarazioni aggiungendo "è stato Obama a usare la carta razziale contro di me".

Clyburn ha fatto notare che questo tipo di dichiarazioni hanno creato un divario ormai incolmabile tra Clinton e gli elettori afro-americani, che una volta lo adoravano. "Quando ci fu il procedimento di impeachment, fu la comunità afro-americana a sostenere Clinton. Adesso i neri pensano che questo dell'ex presidente sia uno strano modo di mostrare riconoscenza."
Clyburn ha anche detto che tra gli afro-americani c'è ormai la convinzione unanime che i Clinton faranno di tutto per danneggiare Obama al punto da non fargli vincere le elezioni presidenziali, in modo che Hillary possa ripresentarsi nel 2012. Prima del voto in South Carolina, era stato Clyburn a dire a Clinton di "darsi una calmata". Ora ammette "mi ha dato retta, ma solo per tre o quattro giorni". Clyburn si è anche detto offeso per il modo in cui i Clinton propagandano il sostegno da parte della classe operaia bianca "Continuano a dire che non importa se Obama ha il 92% dei voti dei neri, perchè ha solo il 35% dei voti dei bianchi. Ma Hillary ha solo l'8% del voto dei neri. Questo non importa? Stanno dicendo che conta solo il voto dei bianchi, e questo non è accettabile".

William Lacy Clay, Rappresentante del Missouri e sostenitore di Obama, si è spinto più in là con un appello alla senatrice "Se ha ancora un po' di lealtà verso il partito, forse deve rivedere la sua strategia e farsi gentilmente da parte per salvare il partito da un risultato disastroso a novembre" ha detto al Washington Post, che fa inoltre notare come da marzo 73 importanti finanziatori della Clinton abbiano iniziato a staccare assegni per Obama dopo le 11 vittorie di fila. L'inverso non è accaduto dopo le ultime vittorie della Clinton. Tra i sostenitori della senatrice pentiti c'è il finanziere miliardario William Louis-Dreyfus, che ha raccontato di aver finanziato la Clinton perchè ben impressionato dalla sua fama "Poi ho iniziato a fare attenzione a quello che diceva, e alla fine è bastato che aprisse bocca per capire che non le credevo".

A difendere la Clinton ci ha pensato Stephanie Tubbs Jones, afro-americana dell'Ohio, che ha detto di non condividere le preoccupazioni dei suoi colleghi "Non credo che Bill e Hillary farebbero 'di tutto' per vincere, anche a costo di danneggiare Obama. La comunità nera non è un monolite".

mercoledì 28 maggio 2008

Chuck Hagel, la risposta di Obama a Joe Lieberman

Il consenso riscosso da Obama presso i Repubblicani era un argomento molto in voga all'inizio di queste lunghe primarie (un paio di mesi fa ma sembrano passati anni. Ricordate il sito RepublicansForObama?), e anche se nel frattempo questo successo si è piuttosto appannato, almeno un supporter di peso nel GOP Obama ce l'ha. Si tratta di Chuck Hagel, che sembrerebbe vicino a ripetere, a partiti invertiti, il percorso politico di Joe Lieberman, che da Democratico è divenuto uno dei maggiori supporter di McCain.
Il Senatore Repubblicano del Nebraska, uno dei maggiori critici dell'amministrazione Bush, nel corso di questa campagna ha ripetutamente tessuto le lodi di Barack Obama non risparmiando pesanti accuse a John McCain. In una dei suoi ultimi discorsi, Hagel ha spiegato di apprezzare molto il programma di Obama in politica estera. Non così per quello di McCain, che ha invitato ad elevare il livello della sua campagna elettorale e ad essere più onesto.


"Il passato ci ha insegnato che i candidati presidenziali in campagna elettorale dicono molte cose, ma quando hanno la responsabilità di governare il nostro paese e guidare il mondo, la differenza tra ciò che hanno detto e le responsabilità che hanno è enorme. Sono molto irritato con John per le cose che sta dicendo. Non posso psicoanalizzarlo, ma credo sia più intelligente delle cose che dice. John legge molto, è stato in giro per il mondo, spero che quando affronterà la campagna presidenziale si eleverà a un livello più alto di discussione". ha detto Hagel, riferendosi in particolare alle critiche rivolte da McCain a Obama per l'intenzione di dialogare con l'Iran.

Hagel ha incoraggiato Obama a perseguire il dialogo con l'Iran se verrà eletto, ricordando che dialogare non equivale ad arrendersi.


E a proposito della possibilità che Bush intraprenda un'azione militare contro l'Iran prima della fine del suo mandato, Hagel è molto chiaro "Un attacco senza il consenso del Congresso, porterebbe a delle conseguenze anche da parte dei Repubblicani, e sto parlando di impeachment. In un caso del genere non puoi limitarti ad essere in disaccordo:- hai lo strumento dell'impeachment e devi usarlo".

Hagel ha anche invitato i media a concentrarsi sulle questioni importanti "e non sul fatto che indossi o meno la spilla con la bandiera americana".


A proposito della possibilità di entrare a far parte di una eventuale amministrazione Obama (c'è chi dice che Hagel sia nella lista di possibili vicepresidenti, o dei possibili Segretari alla Difesa), Hagel si è limitato ad invitare Obama ad essere aperto ai contributi bipartisan, escludendo però che entrambi i candidati abbiano già in mente i nomi del futuro gabinetto.

Le chiavi per la scelta del vice di McCain

di Michael Scherer (TIME)

Quando sei candidato alla Presidenza non puoi invitare semplicemente degli amici a passare il weekend da te, soprattutto se questi amici sono stati segnalati come possibili candidati vice. Se succede, un barbecue del Memorial Day diventa un colloquio di lavoro, o almeno una mossa pubblicitaria.
Ma John McCain continua a dire a tutti di stare tranquilli e non preoccuparsi delle sue vacanze "Ho solo invitato un paio di amici per il weekend del Memorial Day, nè più nè meno". Brooke Buchanan, addetta stampa del senatore, ha ripetuto "Si tratta solo di un evento sociale. McCain farà una grigliata".

Ma la gente ama fare speculazioni. Tra gli ospiti nel ranch di McCain ci saranno l'ex candidato del GOP Mitt Romney, il Governatore della Florida Charlie Crist, il Governatore della Louisiana Bobby Jindal, il Senatore del Connecticut Joe Lieberman e la senatrice della South Carolina Lindsey Graham. L'ex Governatore dell'Arkansas Mike Huckabee, così come il Governatore del Minnesota Tim Pawlenty, non hanno potuto partecipare anche se invitati.
Ognuno di questi nomi è in qualsiasi versione della lista dei possibili vice, che conta circa 20 persone. A questo punto è difficile fare ipotesi, anche perchè i consiglieri di McCain insistono nel dire che il processo è ancora nelle fasi iniziali. Tuttavia McCain e i suoi hanno stilato una serie di criteri per la scelta:

- Si cerca un running mate relativamente giovane. McCain ha detto di essere consapevole della grande importanza della scelta a causa della sua età. Il consigliere Charlie Black è andato oltre, affermando che la scelta di un vice giovane minimizzerebbe le preoccupazioni legate all'età, così come la scelta di George H. Bush fece per Ronald Reagan nel 1980.

- McCain vuole una selezione scrupolosa per trovare una persona preparata. McCain ha citato ad esempio il caso di Dan Quayle, vice di George H. Bush. Anche se ha detto di stimare Quayle, McCain ha affermato che l'ex vicepresidente non era "ben preparato e ferrato su certi argomenti".

- La persona scelta non deve alienare la base conservatrice del partito soprattutto su temi sociali e fiscali. McCain, quando gli è stato chiesto cosa ne pensasse dell'ex Governatore della Pennsylvania Tom Ridge, favorevole alla libertà di scelta sull'aborto, ha detto chiaramente che sarebbe difficile sceglierlo come vice. Il rischio è chiaro, negli ultimi mesi McCain è riuscito ad unire il partito, e non vuole riaprire vecchie ferite con i conservatori poche settimane prima della convention.

A parte questo, gli indizi sono pochi. Sono stati fatti altri nomi, come l'ex deputato dell'Ohio Rob Portman, il Governatore della South Carolina Mark Sanford e Carly Fiorina, ex amministratore delegato di Hewlett Packard.Ma non si sa a che punto è arrivata la ricerca, e se c'è già una classifica, così l'America può interrogarsi sugli ospiti del barbecue di McCain, mentre lui ribadisce che non significa niente.

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martedì 27 maggio 2008

Cosa vuole Hillary?

di Karen Tumulty (TIME)

Una uscita elegante non è mai una cosa facile quando si ha a che fare con l'ego e l'ambizione della politica presidenziale. Ecco perchè negli ultimi giorni sono partiti segnali in codice per quei sostenitori di Hillary Clinton che si sono mostrati disponibili a mollare. Gli emissari della Clinton sottolineano che ha smesso di attaccare Obama e non ricomincerà.
L'ultimo giro di chiamate ha chiarito che, anche se ci sono ancora battaglie da combattere, la guerra è persa. E ci si chiede quali saranno i termini per la resa. Suo marito, ad esempio, pensa che debba avere un premio di consolazione. Secondo persone vicine all'ex Presidente, Clinton ritiene che obama dovrebbe offrire a Hillary il posto di vice, e sta facendo pressioni perchè questo accada. Hillary è molto più incerta su cosa fare "E' chiaro che tutta la faccenda è cambiata, ma non so cosa ha intenzione di fare" ha detto un suo consigliere.

Anche se la Clinton non fosse nel ticket, la gamma di cose che potrebbe volere è ampia, da un aiuto per pagare i debiti della campagna elettorale a un omaggio simbolico alla convention. Il team di Obama sa che la Clinton vuole soprattutto vedere riconosciuti i propri sforzi, ma non si sa ancora come. "Non ci sono state discussioni tra i due staff" ha detto David Axelrod "Nessun negoziato, rispettiamo la sua decisione di andare avanti". Ma tutti sanno che prima o poi verrà il momento della decisione, e sanno anche che il negoziato non sarà facile. "Ci aspettiamo il peggio" ha detto un consigliere di Obama.

Qual è l'influenza della Clinton? Certamente più di qualche mese fa. Anche se non riuscirà a rimontare, le vittorie in West Virginia e Kentucky le hanno permesso di avvicinarsi a Obama nel voto popolare. Questo le dà il diritto di volere il posto di n° 2 o altre cose.
Ma molti consiglieri della Clinton sono dubbiosi sul fatto che Obama possa offrirle un posto nel ticket, soprattutto perchè si ritroverebbe Bill a bordo. La presenza dei Clinton minerebbe anche il suo messaggio di cambiamento. Tuttavia i consiglieri sostengono che per unificare il partito si potrebbe scegliere uno dei maggiori sostenitori della Clinton, come Evan Bayh o Ted Strickland.
Ma nessuno di loro consentirebbe a Obama di conquistare gli elettori della clinton - donne, ispanici, operai bianchi - che in molti stati chiave sembrano irragiungibili. "C'è ancora molto entusiasmo per lei" ha detto la leader di un'organizzazione femminile. Molte donne sono irritate per quelli che hanno interpretato come maltrattamenti sessisti nei confronti della Clinton, e un neonato gruppo di attiviste ha raccolto in quattro giorni 230.000$ usati per comprare spazi pubblicitari per Hillary.

A questo punto, il trattamento riservato da Obama alla Clinton - e viceversa - avrà un grande impatto su ogni accordo tra i due. Jesse Jackson, che ha una grande esperienza su come condurre lunghe e aspre primarie e poi riconciliarsi, ha detto "Il vincitore ha bisogno dello sconfitto". Ma ha anche aggiunto che se lo sconfitto non mette da parte il "dolore", il partito è condannato. Niente spingerà i sostenitori dello sconfitto sul carro del vincitore come vedere il loro candidato coinvolto pienamente con lui. D'altro canto quando le relazioni post-primarie non decollano - tutti ricordano quanto fu lancinante vedere Jimmy Carter inseguire Ted Kennedy per stringergli la mano sul palco della convention del 1980 - il risultato è fatale.
Obama ha ricevuto il messaggio. Ha rinunciato a proclamare la vittoria dopo l'Oregon, e nel suo discorso in Iowa ha lodato "il coraggio e l'impegno" della Clinton, e ha dichiarato l'unità di intenti. Le frasi che ha usato sono molto simili a quelle che la Clinton chiedeva. Un'altra dimostrazione della volontà di Obama di fare pace si avrà se, superando le perplessità di molti alleati, aiuterà la Clinton a pagare gli oltre 20 milioni di debiti della sua campagna elettorale. E' una questione urgente, lei ha tempo solo fino alla fine di agosto per rifondere i debitori.

Forse la domanda più complicata alla fine sarà questa: se la vicepresidenza non è il destino della Clinton, che ruolo avrà nella convention? Con il suo impegno si è guadagnata la possibilità di parlare, e molti temono che voglia far votare i delegati riaprendo le divisioni. Se e come la Clinton e Obama riusciranno ad arrivare ad un accordo dirà molto agli elettori riguardo entrambi. E potrà determinare se un Democratico verrà eletto a novembre.

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McCain rende pubbliche le sue cartelle cliniche

I 5 anni e mezzo di prigionia in Vietnam hanno indubbiamente cambiato la vita di John McCain ma adesso, a 71 anni, è improbabile che quel lontano trauma accorci la sua aspettativa di vita o porti a problemi fisici o mentali attualmente non visibili. Questa è una delle conclusioni più importanti che emergono dalla diffusione delle cartelle cliniche di McCain, la cui pubblicazione era molto attesa a causa delle perplessità sullo stato di salute presente e soprattutto futuro del candidato Repubblicano. Questa conclusione deriva anche da una serie di ricerche sugli effetti della prigionia condotto su un campione di aviatori compagni di McCain nel famigerato "Hanoi Hilton".

Per tre ore, 20 reporter sono stati autorizzati a visionare le oltre 1000 pagine di cartelle cliniche di McCain, che coprono gli anni dal 2000 al 2008, ovvero a partire dall'operazione per rimuovere un melanoma alla pelle potenzialmente letale.
Secondo i referti dei medici, c'è il rischio che McCain sviluppi di nuovo una forma di tumore alla pelle, e per questo si sottopone a visite di controllo molto frequenti. L'ultima visita, del 12 maggio, non ha evidenziato nessun segnale preoccupante.
McCain prende medicine per tenere sotto controllo il colesterolo e occasionalmente ha dei polipi benigni al colon, ma gode invece di ottima salute cardiaca, "il suo cuore è fisiologicamente più giovane" secondo uno dei suoi medici.

Gli esperti che hanno visionato le cartelle cliniche hanno evidenziato che l'unica seria preoccupazione riguarda il cancro alla pelle, per la frequenza con cui si è ripresentato, anche se i continui controlli - che diventerebbero maggiori in caso di elezione - dovrebbero far diminuire i rischi.
Per quanto riguarda le conseguenze della prigionia, non ci sono ancora studi che evidenzino l'incidenza sulla durata della vita nè sulla salute mentale. Gli unici effetti visibili sono quelli agli arti: McCain si ruppe entrambe le braccia e una gamba lanciandosi fuori dal suo aereo nel 1967, e le cure inadeguate, assieme alle torture, lo hanno lasciato con una ridotta mobilità delle braccia.
Dal suo rimpatrio è stato sottoposto spesso a controlli, anche se per molti anni si è sottratto alle visite.
Dopo le tre ore di visione dei documenti, i medici di McCain hanno partecipato ad una conferenza stampa di 90 minuti, da cui sono stati esclusi il New York Times e il Times.
E' dal 1980 che è diventato di routine per i candidati rilasciare documenti sullo stato di salute, anche se con modalità diverse: George W. Bush rilasciò i suoi documenti e permise interviste ai suoi medici, ma non rispose mai alle domande sulla sua salute, al contrario del padre, di Bob Dole, John Kerry e Michael Dukakis che rilasciarono anche interviste. Bill Clinton invece lo fece solo al secondo mandato.
(Nella foto, McCain al suo ritorno dal Vietnam nel 1973, accolto da Nixon)

lunedì 26 maggio 2008

La risposta di Joe Biden a Lieberman

Questa la risposta a Lieberman di Joe Biden, candidato alle primarie di quest'anno e in seguito sostenitore di Obama. Presidente della Commissione esteri del Senato, è uno dei maggiori candidati alla carica di Segretario di Stato in caso di vittoria di Obama.

I Repubblicani e i nostri nemici
di Joseph Biden Jr.

Joe Lieberman ha scritto su questo giornale che il Partito Democratico in cui lui ed io siamo cresciuti si è allontanato dalla politica estera di Roosevelt, Truman e John Kennedy.
In realtà, è la politica estera di George W. Bush, che John McCain proseguirebbe, ad essersi allontanata dalla tradizione di grandi presidenti Repubblicani come Ronald Reagan o George H. Bush.
Il Senatore Lieberman ha ragione nell'identificare l'11 settembre come un punto di svolta, La storia giudicherà l'operato del Presidente Bush per gli errori fatti e le opportunità sprecate. Il Presidente ha avuto un'opportunità storica per unire l'America e il mondo per una causa comune. Invece - sfruttando la politica della paura e istigando una inutile guerra in Iraq prima di finire la necessaria guerra in Afghanistan, e promulgando torture, detenzioni e sorveglianze che contraddicono i nostri valori - Bush ha diviso gli americani tra loro e dal resto del mondo.

Al centro di questo fallimento c'è un'ossessione per la "guerra al terrorismo" che ignora fattori quali le emergenze in Cina, India, Russia ed Europa, la mancanza di energia e cibo, la povertà, le pulizie etniche, il riscaldamento globale. Invece Bush ha trasformato un ristretto numero di gruppi radicali in terribili mostri che dettano ogni nostra mossa. Al Qaeda deve essere distrutta, ma mettere sullo stesso piano il terrorismo con il comunismo o il fascismo è indice di profonda confusione.
Il terrorismo è un mezzo, non un fine, e molti gruppi e paesi lo usano per scopi diversi. Bush e McCain mettono insieme, come una minaccia comune, gruppi e stati più agli antipodi tra loro che con noi. Sunniti e Sciiti, Iraniani e Arabi, Iraq e Iran, Al Qaeda e miliziani sciiti.
Se non riescono ad identificare il nemico, è difficile che possano batterlo. E i risultati parlano per loro: Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan - la nazione che effettivamente ci ha attaccato l'11 settembre - è più forte ora che prima del 2001. Il reclutamento tra le milizie è agli apici. Hamas controlla Gaza e lancia missili contro Israele. 140.000 soldati americani rimangono bloccati in Iraq senza una fine prevista.

A causa di queste politiche di Bush, che McCain proseguirebbe, il Medio Oriente è più pericoloso. Gli USA e i nostri alleati, compresa Israele, sono meno sicuri.
Le elezioni di novembre sono un'opportunità vitale per ripartire. E ci vorrà più di un soldato coraggioso, ci vorrà un leader saggio.
La controversia su come affrontare l'Iran è particolarmente istruttiva.
La scorsa settimana John McCain è stato molto chiaro riguardo la possibilità di trattare con l'Iran: per lui Barack Obama è "ingenuo e inesperto" e "Di che cosa vuole parlare con Ahmadinejad?" ha chiesto.
Beh, tanto per cominciare del programma nucleare iraniano, del supporto alle milizie sciite in Iraq, ad Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza.
A parte le polemiche, in che modo McCain affronterebbe queste minacce? O tratti, o mantieni lo status quo, o vai in guerra. Se McCain ha escluso le trattative ci rimane una politica che ci ha messi in crisi o un'opzione militare che può facilmente andare fuori controllo.

Obama ha ragione quando dice di voler trattare con l'Iran senza precondizioni, ovvero senza voler prima congelare il piano nucleare. Ha anche detto che non sarebbe personalmente coinvolto, a meno che questo non contribuisse ai nostri interessi.
Il Presidente Nixon non chiese che la Cina smettesse di sostenere i Vietnamiti prima di incontrare Mao. Il Presidente Reagan non pretese che i sovietici congelassero il loro piano nucleare prima di incontrare Gorbaciov. Neanche George W. Bush ha chiesto alla Libia di fermare la proliferazione nucleare - che fornisce plutonio alla Corea del Nord.
E' ugualmente dissennata la fissazione di Bush e McCain per un cambiamento di regime. Quel regime è ripugnante, ma non possiamo dire loro: rinunciate alle bombe, e poi vi attaccheremo lo stesso.
Quello a cui dobbiamo puntare è un cambiamento di condotta. Dobbiamo chiarire all'Iran cosa rischia in termini di isolamento se continua il programma nucleare. Questo richiede una capacità di comprensione superiore a quella che Bush e McCain sembrano possedere a giudicare dalle pubbliche sfide all'Iran.
Il popolo iraniano deve sapere che è il loro governo, non il nostro, a rifiutare il dialogo. I nostri alleati devono sapere che prima di fare uso della forza, percorreremo tutte le vie diplomatiche possibili.
La politica di Bush-McCain è la più autodistruttiva immaginabile. Non risolve niente ma porta gli iraniani che disprezzano il loro regime a seguire i loro leader. E porta instabilità al Medio Oriente, aumentando il prezzo del petrolio.
Il peggior incubo per un regime che si basa sulla tensione è un'America pronta al dialogo.

E' soprendente quanta poca fede George Bush, Joe Lieberman e John McCain abbiano nell'America.

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Joe Lieberman critica la politica estera di Obama

Il Wall Street Journal è stato teatro di uno scambio di opinioni tra due vecchie volpi del Congresso americano, Lieberman e Biden, che con due editoriali hanno disquisito sulla strategia di Barack Obama in politica estera.
Ha aperto le danze Joseph Lieberman, ex candidato vicepresidente di Al Gore nel 2000, uscito da Partito Democratico nel 2004 e molto vicino a John McCain in questa campagna elettorale.
I Democratici e i nostri nemici
di Joseph Lieberman

Come ha fatto il partito di Franklin Roosevelt, Harry Truman e John F. Kennedy ad all0ntanarsi così tanto dai principi di politica estera e sicurezza nazionale che erano il cuore pulsante della sua identità? All'inizio degli anni '40, il partito dovette confrontarsi contemporaneamente con la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Sotto Roosevelt, Truman e Kennedy i Democratici condussero una politica estera internazionale, forte e di successo.
Questo è il partito in cui sono cresciuto, un partito che non aveva paura di dare giudizi morali su ciò che accadeva al di fuori dei nostri confini. Era il partito di Harry Truman, che disse "è compito degli Usa sostenere i popoli liberi che resistono alle pressioni di minoranze armate".
Era il partito di John Kennedy, che nel discorso inaugurale della sua presidenza disse che avrebbe "pagato qualasiasi prezzo, sopportato qualsiasi peso, affrontato ogni avversità, aiutato ogni amico per assicurare il trionfo della libertà".
Questa visione cominciò a cadere a pezzi con la guerra in Vietnam, e venne sostituita da una molto diversa. Invece di vedere la Guerra Fredda come una lotta tra le nazioni libere dell'occidente e i regimi del mondo comunista, questa filosofia politica vide l'America come l'aggressore, un potere imperialista e militare che rappresentava il vero pericolo per la pace mondiale.
In questo modo negli anni '70 e '80 i Democratici diventarono schiavi di una politica estera che era l'antitesi di quello per cui si erano battuti in passato.
Negli anni '80 ci fu finalmente chi tentò di correggere la rotta, e i cosiddetti Neo-Democratici vinsero prima del previsto nel 1992 quando furono eletti Bill Clinton e Al Gore. Nei Balcani, ad esempio, quando Clinton arrivò lentamente ma con sicurezza alla conclusione che solo un 'intervento americano poteva fermare Slobodan Milosevic, le attitudini dei Democratici verso l'uso della forza cominciarono a cambiare.
Questo fortunato sviluppo continuò con la campagna del 2000, quando il candidato Democratico Gore promosse una politica estera basata sulla libertà dalle dittature.
Di contrasto, George W. Bush promise una politica estera "umile" e criticò le missioni di pace dei Balcani.

Oggi, a meno di un decennio di distanza, i partiti hanno rovesciato le loro posizioni. Tutto è cominciato, come molte altre cose, l'11 settembre 2001. Bush abbandonò la sua politica estera prudente riconoscendo in quegli attentati un attacco ideologico e militare alla nostra società. Se i Democratici fossero stati coerenti, l'America avrebbe affrontato i terroristi con unità.
Invece nel partito iniziò un dibattito su come rispondere a Bush. Io sostenni che i Democratici dovessero sostenere la politica di Bush, ma la scelta dei nostri leader fu diversa. Quando la vittoria totale tardò ad arrivare, le voci dei pacifisti ad ogni costo tornarono a farsi sentire, vedendo in Bush e non in Bin Laden il nemico, e portando il partito più a sinistra di quanto fosse mai stato negli ultimi 20 anni.

Troppi leader Democratici si sono sottomessi a queste posizioni invece di sfidarle. Incluso, sfortunatamente, Barack Obama che contraddicendo il suo retorico appello all'unità, non ha mai sfidato la sinistra del partito su nessun tema di politica estera o economica o di sicurezza nazionale.
In questo, Obama è in netto contrasto con John McCain, che ha mostrato coraggio politico in tutta la sua carriera per fare ciò che è giusto, anche a costo di perdere popolarità nel partito o fuori di esso.
John capisce anche una cosa su cui molti Democratici sono confusi: la differenza tra gli amici dell'America e i nemici dell'America.
Certamente ci sono momenti in cui bisogna affidarsi alla diplomazia, ma Barack Obama non ha proposto un piano selettivo, ma di incontrare nel primo anno di presidenza tutti i leader anti-americani del mondo, senza preocondizioni.
Obama ha detto di voler seguire le orme di Kennedy e Reagan. Ma Kennedy non ha mai incontrato Castro, e Reagan non ha mai incontrato Khomeini. E qualcuno può immaginare Kennedy o Reagan incontrarsi incondizionatamente con Ahmadinejad o Chavez? Io certamente no.
Se un presidente abbracciasse i nostri peggiori nemici in questo modo, li rafforzerebbe e metterebbe in pericolo le nostre alleanze. Un grande Segretario di Stato Democratico, Dean Acheson, una volta disse "Nessun popolo che ha pensato di proteggere la libertà rendendosi inoffensivo è mai sopravvissuto". Una lezione che i leader Democratici devono apprendere di nuovo.

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domenica 25 maggio 2008

Perchè sia Obama che McCain vogliono Bloomberg come vice

di John Heilemann (New York Magazine)

La mattina prima di fare una spiritosa comparsa al Saturday Night Live, il 17 maggio, John McCain ha fatto colazione a Central Park con Michael Bloomberg e la sua compagna Diana Taylor. Il Post ha dedicato un ampio servizio al menù di questa colazione (il conto è stato pagato da McCain) e ha citato una dichiarazione di un portavoce secondo cui "la vicepresidenza non era un argomento in agenda". Ma fonti vicine al sindaco dicono che la ricerca di un vice era ben presente nel menu di McCain. L'impressione di uno dei partecipanti è stata che il nome di Bloomberg sia nella lista del candidato Repubblicano.
Le speculazioni su una vicepresidenza di Bloomberg non sono una novità. Risalgono a febbraio, quando il sindaco ha deciso una volta per tutte di non candidarsi da indipendente alla Casa Bianca. Tuttavia le ipotesi riguardavano un Bloomberg vice di Obama e non di McCain. Obama ha corteggiato il sindaco non solo offrendogli la colazione, ma pronunciando un importante discorso sull'economia subito dopo che aveva parlato Bloomberg.
E il vicesindaco Kevin Sheekey ha attizzato le fiamme delle ipotesi come un piromane. In più, un'altra fonte riferisce che i collaboratori di Obama e quelli di Bloomberg si siano incontrati anche ad aprile per discutere la disponibilità del magnate a fare il n° 2 del senatore.

In una campagna elettorale in cui le cose senza precedenti sono diventate la norma, forse era inevitabile che i candidati di entrambi i partiti cercassero di associarsi alla stessa persona. E non una persona qualsiasi, ma un Democratico diventato Repubblicano diventato indipendente, divorziato, miliardario, ebreo, sindaco della nostra gloriosa metropoli.
Certo, questo mina il principio alla base della ricerca del vice: chi ti può aiutare a vincere uno stato cruciale che altrimenti perderesti? Ma Bloomberg non può in alcun modo cambiare l'esito dello stato di New York, che il 4 novembre voterà Democratico come sempre. E la sua moderazione rende improbabile l'ipotesi che venga scelto come arma d'attacco - un altro ruolo tradizionale dei vice.
Quindi i motivi di questa scelta vanno cercati altrove. Si comincia con il ragionevole presupposto che l'economia sarà un argomento centrale della campagna elettorale - un argomento su cui nè Obama nè McCain sono particolarmente forti. Bloomberg sarebbe una benedizione per entrambi, ma soprattutto per McCain, il cui dilettantismo in materia è ben noto "Il GOP perde con un distacco dai 10 ai 15 punti sull'economia" dice Doug Schoen, sondaggista di Bloomberg "Con Mike nel ticket, il divario sarebbe molto più contenuto".
Schoen afferma che Bloomberg aiuterebbe McCain anche in altri modi. Gli darebbe slancio in stati chiave come la Florida, il New Jersey (uno stato che i Repubblicani sperano di potersi giocare), la Pennsylvania e perfino la California, dove la troika McCain-Bloomberg-Schwarzenegger costringerebbe Obama a spendere soldi ed energie in uno stato che altrimenti sarebbe sicuramente Democratico. Rafforzerebbe l'immagine moderata ed indipendente di McCain e gli eviterebbe di essere raffigurato come un clone di Bush (c'è qualcuno sulla terra meno simile a Dick Cheney di Bloomberg?) . E se il sindaco volesse contribuire finanziariamente alla campagna - ammesso che le leggi federali lo consentano - McCain potrebbe colmare anche quel divario.

Ciò che Bloomberg porterebbe a Obama non è meno significativo. Se il dubbio principale su Obama è la mancanza di esperienza (soprattutto al comando) Bloomberg sarebbe rassicurante. Scegliere Bloomberg rafforzerebbe l'immagine pragmatica e bipartisan di Obama, e mitigherebbe i problemi con l'elettorato ebreo, nati dalla combinazione di tre fattori: l'associazione col Reverendo Wright, il pazzesco sospetto che sia in realtà musulmano, e la sua volontà di trattare con le forze anti-israeliane come il governo iraniano.
Un problema piuttosto serio, che potrebbe far perdere a Obama la Florida, e che secondo Schoen porterebbe difficoltà anche in Nevada, Colorado e Pennsylvania.

Ovviamente per entrambi ci sono delle controindicazioni alla scelta di Bloomberg. La scorsa settimana McCain ha ricevuto tra possibili vice: Mitt Romney, il Governatore della Florida Charlie Crist e il Governatore della Louisiana Bobby Jindal. Ognuno di loro gli causerebbe meno mal di testa e gli assicurerebbe almeno uno stato in più. Quanto a Obama, Bloomberg non potrebbe fare niente per dargli più autorevolezza sulla sicurezza nazionale, nè per attrarre la classe operaia, soprattutto femminile. Da questo punto di vista sarebbero più indicati l'ex segretario alla Marina Jim Webb, il Governatore dell'Ohio Ted Strickland, o Hillary Clinton.
Difficilmente la scelta di un vice porta più voti, a parte quelli di un singolo stato. Avete mai conosciuto qualcuno che abbia basato il proprio voto basandosi su chi era il candidato vicepresidente?

Un'altra questione: da quale dei due Bloomberg preferirebbe essere chiamato? I suoi rapporti con McCain vengono da lontano; McCain appoggiò la candidatura a sindaco di Bloomberg nel 2001, ben prima che lo facesse Rudy Giuliani. I due sono amici di lunga data. Ma Bloomberg stima molto Obama, gli piace la sua posizione sulle imposte sui carburanti, per le quali ha rimproverato McCain e la Clinton.
Comunque vada, il fatto che il nome di Bloomberg sia su entrambe le liste dice una cosa su queste elezioni: entrambi i candidati sanno che gli elettori desiderano un cambiamento radicale dalla politica polarizzante e difunzionale che ha caratterizzato gli ultimi cicli presidenziali.
Mike Bloomberg, simbolo del malcontento americano. Lo avreste mai detto?

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Illustration by André Carrilho