domenica 27 luglio 2008

Le elezioni che hanno fatto storia: 1988

Le elezioni del 1988 segnarono la fine dell’era reaganiana, che aveva portato ad un exploit quasi senza precedenti dell’economia statunitense e soprattutto alla fine della Guerra Fredda. La popolarità di Reagan permise al suo vice George Bush di partire favorito, ma il clima – dopo le elezioni di medio termine del 1986 – sembrava essersi rivoltato a favore dei Democratici.

In casa Democratica, dopo la debacle di Walter Mondale quattro anni prima, il candidato uscito sconfitto da quelle primarie, Gary Hart, sembrava il favorito. In alternativa, i leader del partito puntavano anche sul Governatore di New York Mario Cuomo, uno degli emergenti più apprezzati, che aveva conquistato la ribalta con il discorso di apertura alla convention del 1984. Ma le cose non andarono come previsto: Cuomo decise di non candidarsi e ad Hart andò peggio. Un anno prima dell’inizio delle primarie, alcuni giornali iniziarono a parlare di una relazione extraconiugale di Hart, che lui negò decisamente fin quando il Miami Herald non pubblicò le foto che provavano la sua relazione con Donna Rice. A maggio del 1987, Hart si ritirò. A dicembre accennò a un suo possibile rientro in corsa, ma ormai le sue chance erano a zero. Anche Ted Kennedy, come Cuomo, decise di non candidarsi. Il ruolo di favorito passò allora a Joe Biden, giovane e moderato. Ma anche la sua campagna si concluse bruscamente quando venne accusato di aver copiato un discorso dell’allora leader laburista inglese Neil Kinnock. In realtà Biden aveva sempre attribuito le sue citazioni alla corretta fonte, tranne l’unica volta in cui un suo comizio fu ripreso dalle telecamere.


A questo punto, i nomi rimasti in ballo erano quasi tutti di outsider: il Governatore del Massachusetts Michael Dukakis, l’attivista dei diritti civili Jesse Jackson, il Senatore del Tennessee Al Gore e il leader di maggioranza alla Camera Dick Gephardt del Missouri.
Gephardt iniziò molto bene, vincendo in Iowa e arrivando secondo in New Hamsphire, ma poi cadde vittima del tiro incrociato di Dukakis e Gore, che sponsorizzarono una campagna di stampa molto negativa contro di lui. Nel Super Tuesday, Dukakis vinse sei primarie, mentre Gore e Jackson si danneggiarono a vicenda dividendosi gli stati del Sud, cinque a testa. Il distacco tra i tre era sottile, ma mentre Gore e Jackson non riuscirono a raccogliere consensi al di fuori del loro bacino abituale, Dukakis riuscì ad attrarre consensi da tutte le parti della nazione e divenne il front runner. Gore, Gephardt e gli altri candidati si ritirarono dopo il Super Tuesday, mentre Jackson decise di rimanere in corsa.
La convention Democratica si aprì con un discorso di Bill Clinton, talmente lungo che i delegati iniziarono a fischiare pur di farlo finire. Dukakis ottenne la nomination al primo voto, ma Jackson riuscì comunque a raccogliere oltre 1200 delegati. Molti ritenevano che Dukakis dovesse sceglierlo come vice, ma il nominato preferì orientarsi su Lloyd Bentsen, Senatore del Texas, riproponendo quindi un ticket Massachusetts-Texas a 28 anni di distanza da Kennedy-Johnson.

Tra i Repubblicani, Bush vinse la nomination superando senza problemi Bob Dole e Jack Kemp (nonostante una debacle iniziale nei caucus dell’Iowa), e si presentò con una piattaforma più moderata di quella di Reagan. Alla convention presentò come vice il semisconosciuto Dan Quayle.


Alle elezioni di novembre si candidò, tra gli altri, anche Ron Paul per il Libertarian Party.
Subito dopo le convention, i sondaggi davano Dukakis con 16 punti di vantaggio su Bush, che iniziò perciò una campagna elettorale tesa a dipingere il Democratico come un liberal di estrema sinistra ignorante in materia militare. Dukakis provò a rispondere facendosi fotografare a bordo di un carro armato, ma la mossa si rivelò un boomerang, e le sue foto in cui provava goffamente a mostrarsi marziale divennero un’arma privilegiata della campagna di Bush.
Dukakis provò ad attaccare Bush a proposito di recenti scandali dell’amministrazione Reagan e per la scelta di un vice troppo giovane e inesperto. Quayle si rese protagonista di numerose gaffe: durante l’unico dibattito vice presidenziale, provò a minimizzare la sua inesperienza paragonandosi a John Kennedy e dicendo di avere più esperienza di quella che aveva Kennedy quando si candidò. Al che Bentsen replicò con una frase entrata negli annali “Senatore, ho servito con Jack Kennedy. Conoscevo Jack Kennedy. Jack Kennedy era mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy”. Quayle replicò che quella risposta era inappropriata, e Bentsen rincarò la dose “E’ lei che ha fatto il paragone, e io sono quello che lo conosceva bene. E francamente penso che siete così distanti negli obiettivi scelti per il nostro paese che non credo che il paragone abbia senso”.
Ma nonostante questo episodio, Bush-Quayle avevano ormai saldamente superato Dukakis nei sondaggi. Dukakis soffrì un ulteriore affondo quando Willie Horton, un assassino messo in libertà provvisoria all’interno di un programma di riabilitazione sponsorizzato proprio dal Governatore del Massachusets, commise un nuovo omicidio con stupro. La campagna Repubblicana sfruttò questo episodio, e creò ad arte false voci riguardo una presunta malattia mentale di Dukakis.
Dukakis se la cavò bene nel primo dibattito con Bush, ma il secondo mise la parola fine alle sue aspirazioni. Il giornalista Bernard Shaw gli chiese se avrebbe sostenuto la pena di morte nel caso in cui sua moglie fosse stata violentata e uccisa, e Dukakis rispose citando dati sull’inefficacia della pena di morte. Tutti furono d’accordo nel dire che una tale domanda era scorretta e irrilevante, ma anche che la risposta di Dukakis era stata troppo asettica e inefficace.

Le elezioni si tennero l’8 novembre e si conclusero con una netta vittoria di Bush sia nel voto popolare che per Grandi Elettori. Il Repubblicano infatti conquistò 40 stati e il 53,4% dei consensi, con 426 Grandi Elettori. Dukakis vinse in 10 stati più D.C., con 111 Grandi Elettori e il 45,6% di consensi.
Per la terza volta consecutiva, i Repubblicani conquistarono la Casa Bianca con ampio margine, ma nonostante la sconfitta, i Democratici rafforzarono la loro leadership nei due rami del Congresso, preannunciando vita difficile al nuovo Presidente.

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