di Anne E. Komblut e Dan Balz (Washington Post)
Distaccata per numero di delegati e con i debiti che continuano crescere, Hillary Rodham Clinton sta facendo aggressivamente campagna elettorale negli ultimi tre stati in cui devono ancora svolgersi le primarie, nella speranza di superare Barack Obama nel voto popolare.
L'effetto di una simile vittoria - e il dubbio se la Clinton intenda proporsi con forza per il posto di vicepresidente o semplicemente voglia conseguire un risultato storico - è meno chiaro.
La ricerca di questo risultato a portato la Clinton in South Dakota e poi di corsa a Porto Rico il giorno dopo. Questo spiega anche la retorica a volte contraddittoria usata la scorsa settimana, in cui a un appello all'unità del partito seguiva il proposito di continuare a rimanere in corsa contro Obama.
"Comunque vada, continuerò a lavorare al massimo delle mie possibilità per far sì che un Democratico venga eletto presidente questo autunno. Il motto del Kentucky è 'Uniti ci battiamo, divisi cadiamo'" ha detto dopo la vittoria di martedì scorso. Il suo discorso è stato intepretato da alcuni come il segno che la Clinton è già proiettata al suo ruolo nel dopo-primarie.
Ma appena un giorno dopo, con rinnovato vigore, la Clinton ha paragonato i suoi sforzi per ottenere la riammissione di Michigan e Florida alla lotta per l'abolizione della schiavitù - una boutade che secondo molti addetti ai lavori riflette il difficile stadio emotivo della candidata.
L'impegno della senatrice di riammettere i delegati di Florida e Michigan è collegato al suo desiderio di conquistare il primato nel voto popolare. In quegli stati, penalizzati dal partito, la Clinton ha vinto con ampio margine, anche visto che Obama non compariva tra i candidati in Michigan.
Dopo le primarie in Oregon e Kentucky, Obama ha una leadership di 400.000 voti, secondo varie stime, ma contando il totale di voti di Michigan e Florida la Clinton passerebbe in testa. Lei spera di colmare il divario con una ampia vittoria a Porto Rico, domenica prossima.
Tuttavia i suoi assistenti stanno facendo fatica a spiegare gli scopi di questa battaglia. La settimana scorsa il portavoce della Clinton, Howard Wolfson, ha smentito seccamente le voci secondo cui la senatrice fosse in stretti contatti con David Plouffe per negoziare un ticket con Obama.
Il numero di consiglieri della Clinton si fa intanto sempre più stretto, e le persone con cui la canddiata discute di future strategie sono solo la manager della campagna elettorale Maggie Williams e l'avvocato Cheryl Mills. Ma di sostenitori nel partito ne ha ancora molti, che la sostengono ad andare avanti e che sperano che la nomination non arrivi prima della convention.
Il 31 maggio dovrebbe arrivare una prima decisione per Michigan e Florida, con la riunione della commissione Rules & Bylaws. Se le due parti non saranno soddisfatte delle decisioni, la questione andrà avanti almeno fino ad una nuova riunione, alla fine di giugno.
La Clinton ha detto ripetutamente che non si farà da parte finchè Obama non avrà raggiunto la metà più uno dei delegati, ma lei si riferisce al quorum di 2.210 delegati, ovvero con Michigan e Florida, e non a 2.026.
La Clinton chiederà alla Commissione di riammettere completamente i due stati, soluzione che le farebbe guadagnare 111 delegati. Il distacco da Obama è ora di circa 190 delegati, quindi anche il più favorevole degli esiti la lascerebbe alle spalle del rivale. Un'altra soluzione le darebbe un guadagno di 56 delegati. Tra i 30 membri della commissione, 30 sostengono la Clinton, ma non è detto che porteranno avanti ad oltranza le sue richieste a rischio di spaccare il partito.
Le frasi infelici della Clinton sull'assassinio di Robert Kennedy e sulla lotta per le delegazioni paragonata a quella contro la schiavitù non hanno certo contribuito a rasserenare il clima attorno a lei.
Se la commissione non troverà una soluzione, tutto passerà nelle mani del Credentials Committee che si riunirà il 29 giugno. In pochi pensano che la Clinton possa spingersi così in là, ma alcuni dei suoi consiglieri affermano che la senatrice è pronta a farlo se la commissione non emetterà una sentenza a lei favorevole.
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